Giovanni Maresca (Napoli 11.01.1983 - Roma 6.09.1971) dal 1948 5° Duca di Serracapriola, con Primiano Magnocavallo, Sindaco di Serracapriola, in una fotografia del 31 maggio 1960 (Processione Centenaria di San Fortunato martire, compatrono di Serracapriola).
Una data, un fatto: 29 Luglio 1916, mar Mediterraneo, silurato, affondato il Letimbro; a bordo il Tenente Giovanni Maresca di Serracapriola
Il Tenente Giovanni Maresca di Serracapriola, nel Luglio 1916, comandava un forte avanzato a Bardia (Colonia di Cirenaica, Trattato di Losanna, 18 ottobre 1912), da pochi mesi occupata e presidiata dagli italiani e perché ritenuta località di rifornimento dei sommergibili germanici e allo scopo di delimitare, con gli inglesi che occupavano Salúm, i confini della Cirenaica.
Il 25 Luglio 1916, il "Comando Presidio" di Bardia, ordinò al Tenente Maresca di accompagnare immediatamente all'Ospedale militare di Tobruck il sottotenente Magnante, in forza al suo stesso Battaglione (55° del 1° Reggimento Bersaglieri), per cure mediche urgenti. Il successivo 26 Luglio 1916 a Tobruck, dopo che aveva esaurito le incombenze che gli erano state affidate, Maresca venne informato di una licenza concessagli per l'Italia. Dal porto della stessa città di Tobruck e nella stessa giornata (26 Luglio 1916), Maresca partì per l'Italia. Si imbarcò sul piroscafo "Letimbro", iscritto al Compartimento di Palermo, un "postale" impegnato sulla rotta Genova-Siracusa-Bengasi e viceversa, comandato dal Capitano marittimo Vincenzo Urso, da Palermo.
Da Tobruck, la nave fece scalo dapprima a Derna e poi a Bengasi da dove riprese il viaggio per Siracusa (via Capo Passero), la sera del 28 Luglio 1916 (ore 19.30). A bordo c'erano cinquantotto uomini d'equipaggio e centocinquanta passeggeri, anziani e bambini, donne e uomini; fra loro, dodici detenuti militari italiani, due ergastolani libici, due carabinieri di scorta armata ai detenuti e poco più di ottanta militari, in uniforme cachi, in massima parte ammalati.
La mattina del 29 Luglio 1916, intorno alle ore sette, nel mare liscio di bonaccia, il comandante Urso avvistò il periscopio di un sommergibile in emersione, ad un miglio e mezzo circa dal Letimbro, al traverso sulla sinistra. Il Letimbro eseguì manovre per volgere la poppa al sottomarino ed offrirgli, in tal modo, una minore superficie di bersaglio.
Ad emersione completata il sottomarino esplose un colpo di cannone "in bianco" contro il piroscafo italiano; dal cassero di poppa il Letimbro fece sentire la sua voce con un cannoncino da 57 mm, l'unico armamento di cui disponeva. Nel tentativo di scappare dal pericolo, Urso ordinò di velocizzare la velocità e seguire una rotta a zig-zag. Prima che la lenta e non più giovanissima nave riuscisse nell'intento, dal sottomarino partì un siluro che passò quasi a venticinque metri di distanza dal piroscafo. Nel contempo, il sommergibile rafforzò il suo fuoco contro il "postale" mancato, sparando con due cannoni da 76 mm.
Dopo l'esplosione di alcuni colpi (11/ 12 secondo il Comandante Urso; 7 secondo il Tenente Maresca ed altri) il cannoncino del Letimbro s'inceppò (andò in frantumi il grilletto di percussione) e tacque. Valutando impossibili fuga e resistenza, il Letimbro scelse la vita per la vita che trasportava: fermò il suo motore da 950 cavalli e levò alta la bandiera bianca della resa.
E, per rassicurare ancora di più il sommergibile, che nel frattempo aveva alzato il vessillo austriaco, fischiò tre volte la sirena, scaricò il vapore delle macchine e lanciò il segnale, convenuto e noto, per calare in acqua le scialuppe di salvataggio. Il Letimbro ne aveva sei ed erano state rizzate fuori bordo nel porto di Bengasi, munite di bussole, remi, vele, barilotti di acqua potabile e pacchi di gallette. Delle scialuppe, quattro erano adatte al salvataggio, le restanti due erano piccole ed inadeguate a carichi e mare lungo.
Sin dal primo colpo di cannone esploso, a bordo della nave italiana nacquero confusione, paura, imprecazioni ed urlìo generale. I passeggeri, svegliatisi di soprassalto, raggiunsero la coperta della nave in preda al panico. Per cercare scampo, con, o senza cintura di salvataggio alcuni si buttarono in mare saltando da un'altezza di metri 7,20.
E scomparvero in un batter d'occhio tra le acque mediterranee, in quel punto profondo quasi duemila metri.
Fra loro, anche Angelina Schiavetti, direttrice delle scuole femminili di Bengasi, la contessa Scalpinelli di Leguino Anceschi, con una bambina (sua figlia?), Bettino Salvatori, direttore della sede di Derna del "Banco di Roma", con sua madre, Antonina Biscoglio-Rosano, con quattro figli, Maria Dacunto-Russo con due figli, Lavinia Bottini-Scarpapaci, Rosina Roazzi, Renzo Roncalli di Giacinto, Giovan Battista Campo con il figlio Giuseppe (l'altro figlio, Antonio Campo di 15 anni si salvò; approdò a Misurata e cadde prigioniero di ribelli turchi-arabi che lo liberarono il 22 Giugno 1919); le giovani "canzonettiste" Giuseppina Donati (in arte Mimì Branca) e Bianca Capozzi, che rientravano in Italia dopo una tournée in Cirenaica, appena in acqua vennero maciullate dall'elica del Letimbro ancora in movimento.
Altri passeggeri -invece- presero d'assalto, disordinatamente e senza disciplina alcuna, le scialuppe di salvataggio prima che iniziassero le manovre per la loro discesa in mare. E tutto ciò mentre il sottomarino, continuando l'offensiva, cannoneggiava senza tregua non solo il Letimbro, ormai fermo ed inoffensivo, ma anche le stesse lance di salvataggio. Una granata, una delle quasi 50/60 complessivamente sparate dall'unità navale austriaca, raggiunse la lancia numero 5 (la più piccola delle due piccole), già in acqua, ma non ancora liberata dalle cime. La barca italiana fu fracassata e restarono uccise, o ferite, buona parte delle persone che l'avevano già occupata, o stavano calandosi dalle corde. Restarono feriti, fra gli altri: Alessandro Salvadori, Prefetto di Bengasi ed il Capitano medico Rosario Scalia (spirerà -ancora naufrago errante- il l° Agosto 1916); annegati morirono Nicola Aiello da Napoli, medico provinciale di Bengasi e suo figlio Riccardo, di sei anni, che gli si era fortemente aggrappato al collo; il Capitano del 50° Reggimento fanteria, Giulio Ghio restò sfracellato da una granata mentre, afferrato ad una fune della nave, stava scivolando -pur con una gamba ingessata- in un'imbarcazione ancora accostata al Letimbro.
Dopo che le lance furono tutte in acqua, il Comandante Urso perlustrò la nave per verificare se a bordo vi fosse ancora gente. Trovò soltanto i due detenuti arabi che non potevano muoversi e che egli non poté liberare perché incatenati ed ammanettati e, fra le merci trasportate, alcuni cavalli che nitrivano e scalpitavano chiusi in gabbia.
Urso abbandonò la "sua" nave; sarà raccolto, dopo traversie, da una scialuppa, la numero 2; a bordo d'essa troverà posto il Duca di Serracapriola.
Dopo il primo siluro andato "in bianco", passato a circa 25 metri dalla sua poppa, il Letimbro venne centrato in pieno da un secondo lancio. Gli austriaci glielo spararono contro da una distanza di circa 500 metri. Per il piroscafo italiano quel secondo siluro fu il colpo di grazia: inclinatosi sulla sua sinistra, la nave s'inabissò rapidamente, portando con sé i due ergastolani libici, non potuti liberare dal catename che li ammanettava ed i cavalli rinchiusi nelle gabbie.
L'affondamento si consumò in un minuto e mezzo, alle 9,30 del mattino, 110 miglia da Bengasi, sulla rotta per Siracusa, a «latitudine 33,29 Nord e 18,38 longitudine».
A missione ultimata, lento, silenzioso e vittorioso, il sottomarino rientrò nel ventre profondo del Mediterraneo, abbandonando il mare della tragedia costellato di morti, di feriti, di sfasciumi, di naufraghi boccheggianti in acqua. E di dispersi: «non v'ha dubbio», ha scritto il duca di Serracapriola, che «il vortice prodotto dal Letimbro che s'inabissava dovette inghiottire qualche naufrago, se eventualmente ve n'era ancora qualcuno vivo», quantunque munito «di salvagente, o aggrappato a qualche rottame» e portarselo nella grande tomba dei marinai «dove non fioriscono le rose».
L'assassinio del postale, «uno dei più feroci che la guerra sottomarina registri» per il modo barbaro e disumano con cui venne compiuto, suscitò indignazione nel mondo e fu condannato aspramente dalla stampa che lo definì «piratesco crimine», «mostruoso delitto austriaco»...
Lo sdegno generatosi indusse lo Stato Maggiore dell'Ammiragliato nemico a dire la sua verità con «un comunicato... sull'affondamento del Letimbro... ad opera dell'U/9»: «nelle ore antimeridiane del 29 luglio, un sommergibile austro - ungarico avvistò un piroscafo - di 2000 tonnellate dall'apparenza di un piroscafo da carico. Ad un colpo di avviso sparato a 8000 metri innanzi alla prua, il piroscafo non fermò le macchine, ma accostò, aprì il fuoco con due cannoni poppieri e tentò di fuggire seguendo delle rotte a zig - zag. Il sommergibile... risponde al fuoco senza colpire. Dopo 20 minuti il piroscafo cessa il fuoco, ammaina cinque imbarcazioni, non mostra segnali né batte alcuna bandiera... il sommergibile ritenne che... si trattasse di un piroscafo - trasporto di truppe; si avvicina cautamente perché non rimanga a bordo il personale di armamento dei pezzi: solamente a 3000 metri ha colpito il bersaglio, quando tutte le imbarcazioni erano già scostate. A 800 metri ha affondato il piroscafo con un siluro poiché non v'era più gente a bordo. Il sommergibile si avvicina ad una imbarcazione: vi si trovano 30 persone tra le quali circa 20 in khaki uniforme. La gente dichiara che il piroscafo è il "Letimbro " da Bengasi a Siracusa, quindi si conferma l'ipotesi che si trattava di nave con truppe».
La comunicazione austriaca divulgata in «evidente contrasto con la verità», assegnava «due cannoni al Letimbro» che, di fatto, «ne aveva uno soltanto» (da mm. 57); nascondeva di «aver lanciato subito un primo siluro e di aver mancato il bersaglio», affermava di «aver sparato quando le imbarcazioni si erano allontanate dal Letimbro», cosa non vera «perché ... colpì in pieno una imbarcazione» di salvataggio che stava «vicino al piroscafo, fracassandola... e uccise e ferì persone che, a mezzo delle apposite cime, stavano calandosi nelle imbarcazioni» già posizionate in mare. Né riferiva esattamente la conversazione intercorsa fra «gli ufficiali del sommergibile ed il maggiore Bruni (che parlava anche il tedesco)» il quale con la scialuppa (la numero 1) si avvicinò agli "affondatori" e chiese loro «di cessare il fuoco» e salvare, «prendendoli a bordo, coloro che stavano ancora in mare, in procinto di annegare». In «uno stentato italiano» dal sottomarino negarono al Bruni l'avanzata richiesta di salvataggio - naufraghi, «non essendo assolutamente permesso» imbarcare prigionieri.
Dal colloquio intercorso con i nemici, il maggiore Bruni ebbe «l'impressione che l'equipaggio... fosse tedesco e non austriaco, per l'aspetto spiccatamente nordico di tutti i marinai» che, in assoluto silenzio, stavano allineati in coperta.
A guerra conclusa, «anche al Ministero della Marina italiana si riteneva... che, probabilmente, l'affondatore del Letimbro, pur avendo alzato bandiera austriaca», poteva «essere PU139, di nazionalità germanica». (E pensare che l'Italia si considerò in guerra con la Germania il 28 agosto 1916, un mese dopo l'affondamento del Letimbro!!)
Dopo un lungo nuotare nelle acque della tragedia, Giovanni Maresca, in costume adamitico, raggiunse e venne accolto nella scialuppa di salvataggio numero 2. A bordo venticinque persone: undici membri dell'equipaggio del Letimbro (il comandante Vincenzo Urso, il capo macchinista Giovanni Latona, il secondo macchinista Luigi Tenaglia, l'allievo ufficiale Pasquale Mazzella, il nostromo Salvatore Bellante, i marinai Gaetano Midolo e Giuseppe Ursino, l'elettricista ligure Emilio Zanone, l'ingrassatore Salvatore Pellegrino, il cameriere Attilio Panico, I1 secondo cuoco Giovanni Briasco) e quattordici passeggeri (il tenente Giovanni Maresca, il sergente Amos Sabatini, il sergente maggiore Alessandro Fassone da Pieve dì Teco (Porto Maurizio), entrambi dell'8° Reggimento Bersaglieri, il capitano genovese Vincenzo Visconti Prasca, del 7° Battaglione Indigeni Eritreo, il Prefetto di Bengasi, Alessandro Salvadori, la signora Luisa Albina Prati (ferita al braccio sinistro), il capitano medico Rosario Scalia, direttore dell'Ospedale di Tolmetta, il marinaio Antonino Bifulco da Pozzuoli, la guardia di PS. Almerindo Nocca, Gioacchino Baroncini, da Castel San Pietro, Umberto Cassone, il soldato Giuseppe Merlini, il detenuto Vittorio Cavazza, il sergente maggiore Nestore Mariani, del 37° Reggimento Fanteria.
La scialuppa numero due aveva scarsa velatura ed Urso, che ne aveva assunto il comando, per velocizzarne la navigazione, chiese chi degli imbarcati sapesse remare. Maresca, dichiaratosi "campione Italiano di voga", venne scelto come capovoga e rematore. In navigazione, Urso seguì la rotta propria del Letimbro pensando, secondo logica, che dopo il mancato arrivo del piroscafo i soccorritori, partendo da Siracusa, avrebbero percorso la rotta in senso inverso: ogni ricerca sarebbe stata in tal modo più fruttifera. Le altre lance di salvataggio, di strutture e velature diverse, staccandosi dal Letimbro non riuscirono a «navigare di conserva». Nel volgere di breve tempo, si persero di vista fra di loro, abbracciando destini diversi: per alcuni naufraghi i destini si tinsero di tragedia.
Il Letimbro, che secondo orario doveva fare scalo a Siracusa nella mattinata del 30 luglio 1916, non poté segnalare l'attacco subito né lanciare SOS perché a bordo non aveva nessun apparato radio - telegrafico.
Le autorità italiane di Bengasi, informate che il postale non era giunto a destinazione né il 30 e nemmeno nelle prime ore del 31 luglio 1916, fecero scattare le ricerche di soccorso.
Prese il mare l'incrociatore ausiliario "Domenico Guerrazzi", comandato dal tenente di vascello G Schiaffino, ormeggiato nel porto di Bengasi. La Regia Nave navigò seguendo la rotta del Letimbro. Nel pomeriggio del 1° agosto 1916, a circa duecento miglia da Bengasi, raccolse i naufraghi della scialuppa numero due con la salma di Scalia. Il medico era venuto a mancare durante la navigazione per ferite al braccio destro provocategli da una granata esplosa dal sottomarino contro la scialuppa di salvataggio sulla quale si trovava a naufragio avvenuto.
Al "Guerrazzi", Urso comunicò che le altre scialuppe avevano virato più ad ovest rispetto alla loro rotta. L'incrociatore ampliò le ricerche spostandosi ad Occidente «fino alle (ore) 18; non avendo visto nulla, riprese la rotta per Siracusa». Vi arrivò poco prima di mezzogiorno del 2 agosto 1916 e si ancorò nel porto con la bandiera a mezz'asta.
I naufraghi furono accolti con ogni riguardo e subito avviati all'Ospedale Umberto I per i controlli medici.
Il duca di Serracapriola, che nel naufragio aveva perduto ogni effetto personale, venne «rivestito da capo a piedi».
Sbarcando a Siracusa i naufraghi appresero che la scialuppa numero 1, guidata dal Capitano marittimo Michele Guaiana, da Trapani, terzo ufficiale del Letimbro, era stata salvata con il suo carico umano (28 superstiti, fra cui il maggior Bruni) nei pressi di Malta. A salvarla il piroscafo francese "Consul Horn" (1° agosto 1916, ore 7 del mattino).
Il duca di Serracapriola lasciò Siracusa per Napoli.
Al Santuario di Pompei, il duca entrò nella preghiera per ringraziare quella Madonna raffigurata sulla medaglina d'oro che l'11 gennaio 1893, alle due del mattino, appena al mondo gli «avevano accollata»; la stessa che il 29 luglio 1916, tornando «dai flutti alla vita», egli portava ancora serrata al collo.
A settembre 1916, a licenza scaduta, Giovanni Maresca dì Serracapriola, tenente del 1° Bersaglieri, ripartì da Napoli; destinazione Porto Bardia, Africa.
CURIOSITÀ
La sopravvivenza più lunga di naufraghi in mare aperto ricordata nella storia moderna, è di quattrocentottantaquattro giorni e risale alla fine dell'anno 1813.
Dopo l'affondamento della nave che comandava, causato da una burrasca che infierì violenta sul mare del Giappone, il capitano Oguri Jukichi ed un "suo" marinaio, superstiti del naufragio, restarono alla deriva nell'Oceano Pacifico fino ai primi mesi del 1815.
Dopo tanto mare, una nave americana avvistò i naufraghi alla deriva nei pressi della costa Californiana e li raccolse.
Erano sfiniti, ma vivi.
Guido Bruni, figlio di Oreste, nacque a Chieti il 23 febbraio 1871. Come scelta di vita professionale abbracciò la carriera militare. Sottotenente di fanteria dal 3 Agosto 1891, negli anni 1914-1916 fu in Libia (65° Rgt. Fanteria) ove, per l'operato svolto, meritò una croce di guerra al valore militare.
Il 29 Luglio 1916 fu fra i naufraghi del Letimbro. Il 1° Agosto 1916, la lancia di salvataggio n.1, dove aveva trovato scampo al naufragio, venne avvistata e recuperata dal piroscafo francese Consul Horn. Rientrato in Italia, Bruni partecipò, senza risparmiarsi, alla prima guerra mondiale (Brigata Regina, prima, e Brigata Pallanza, dopo) e guadagnò una medaglia d'argento a Sagrado; una seconda medaglia gli fu assegnata sul campo presso Dosso Faiti (battaglia Agosto 1917). Qualche giorno prima, il 26 Luglio 1917, Bruni era stato promosso Colonnello.
Nel 1927, da Maggiore Generale, assunse il comando della 15° Brigata di fanteria in Pola.
A Pola, Guido Bruni e Giovanni Maresca di Serracapriola si incontrarono dopo il naufragio del Letimbro.
(Ricerca immagine Stany Ricci-Restyling computerizzato Renato Ciarallo)
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