Dagli albori dell’umanità i cacciatori dell’epoca paleolitica si adornavano di semplici conchiglie. Si iniziò poi a conoscere ed apprezzare i doni della natura come i minerali pregiati e venne sviluppata nel corso dei secoli la lavorazione di pietre e metalli preziosi. L’oro e l’argento, prestigiosi in ogni epoca per la malleabilità, duttilità, lucentezza e relativa rarità, divennero la ragion d’essere dell’oreficeria. Il platino, le cui qualità sono la pura e bianca luminosità, la duttilità, resistenza e durezza, più raro dell’oro, si trova in pochissimi giacimenti al mondo. Altri metalli usati in oreficeria sono lo stagno, il rame e le leghe: il bronzo (composto di rame e stagno) e il peltro (antico: argento e piombo; attuale: stagno, antimonio e rame). Dei minerali circa 100 possono essere usati come gemme. Le prime pietre lavorate per ornamento o usate per oggetti d’arte furono il granato, il cristallo di rocca, la nefrite, l’ametista viola regale, il diaspro rosso mattone (roccia, durezza Mohs 7, usata dall’Homo Erectus per produrre lame), la giada, lo smeraldo verde e le sostanze organiche: ambra (resina fossilizzata), perla, corallo, avorio. Fra le altre gemme ricordiamo: il “bianco”diamante (scala Mohs 10), il rubino rosso, lo zaffiro blu cielo, l’opale arcobaleno, il topazio di vari colori, l’acquamarina dal celeste chiaro al blu intenso mare, il lapislazzuli azzurro intenso, usato dagli antichi egizi.
La lavorazione dell’oro, di altri metalli pregiati e delle pietre preziose si distingue fra tutte le tecniche artistiche per il valore intrinseco dei materiali e per le loro qualità naturali di bellezza, durata, per la finezza e varietà dei procedimenti, per gli effetti di forme, di colore, di riflessi di luce, di gusto miniaturista. Concorrono ad essi, a volte, l’impiego e l’abbinamento di più metalli, l’inserzione di pietre preziose o lavorate, gli smalti.
I primi gioielli e oggetti preziosi di pregevolissima fattura provengono dall’Oriente. Gli orafi egiziani già dall’epoca della I dinastia danno prova della loro grande abilità tecnica e gusto artistico nell’accostare oro e pietre di colori diversi. Per arrivare agli splendori dell’oreficeria del Rinascimento fino agli sviluppi del moderno sperimentalismo con cambi di gusti delle mode, diverse tipologie di gioielli, tecniche e materiali.
In Italia agl’inizi del XVI secolo gli orafi, fino all’ora inseriti nelle “artes mechanichae”, la casta più bassa dei mestieri, realizzarono la loro aspirazione, quella di fondare una confraternita autonoma per essere qualificati artisti. Per gli orafi romani la qualificazione artistica del proprio mestiere avvenne con la fondazione dell’Università e la consacrazione della chiesa. Nel 1900 il cav. Enrico Giacomo Ghirardi, uno dei più dotati maestri orafi dell’epoca, fondò a Torino la prima scuola italiana dell’arte orafa.
“Orafo” era il vocabolo per indicare l’artigiano o l’artista che lavorava l’oro e produceva gioielli. Poi veniva chiamato orefice (réfece), dal latino aurifex, comp. di aurum (oro) e fex da facere – perf. feci (fare): l’artefice che lavora i metalli più preziosi come l’oro, l’argento, il platino. Si presuppone, come per gli altri mestieri, che inizialmente l’artefice dei gioielli commerciava anche il suo prodotto. Nel tempo c’è stata la specializzazione di chi commerciava gli oggetti preziosi: il gioielliere, che nella sua gioielleria vendeva i gioielli prodotti dagli orafi o, se egli stesso era anche orafo, vendeva i suoi prodotti e quelli degli altri artigiani. Il termine quindi ha un significato più ampio ma talvolta i due termini (orefice e gioielliere) sono equiparati come sinonimi. A noi piace però considerare sinonimi orafo e orefice, grazie al loro etimo, e chiamare gioielliere chi ha solo la funzione di vendere i preziosi.
A San Severo, dopo gli orafi Finocchietti, intorno al 1850 l’orafo-girovago Benedetto Buono, proveniente da Trani (BA) formò famiglia, tramandando il mestiere ai figli Giuseppe, Donato, Cosimo e Nicola. Benedetto e poi il figlio Giuseppe e i nipoti ebbero contatti di lavoro con i gioiellieri di Serracapriola e in particolare con la gioielleria Castriota.
Al momento non abbiamo documenti per confermare la presenza nel passato di maestri orafi a Serracapriola, ma di certo ci sono stati dei gioiellieri che venivano chiamati réfece (orefici). Data la precisione e l’oculatezza richiesta da questa attività commerciale, dove si manipolano metalli preziosi e si usa il bilancino di precisione per pesare l’oro, la persona furbastra, pignola e avara viene apostrofata con il detto “quìlle, jè nu réfece!”.
Nell’anno 1848 Michele Cavalli, proveniente dal Gargano, aveva una gioielleria a Serracapriola. Nel 1885 Beniamino Castriota (19-05-1864/10-01-1944), di Lorenzo e Rosina de Leonardis, all’età di 21 anni aprì una gioielleria in via Giannone, civico 14; la stessa strada che ai civici 33 e 39 di oggi, all’epoca un unico palazzo, diede i natali a lui, a quattro fratelli, Michele, Luigi, Felice, Giorgio e a una sorella Angiolina (maritata a Gaetano Alberico). Il 5 maggio1895 il gioielliere Beniamino sposò Angela Maria Gatta di Antonio, dalla quale ebbe quattro figli al civico 33, la casa che ereditò, mentre l’altra, al n.39, toccò al fratello Giorgio. Nell’esercizio, spostato in via Nicola Ciampa, Beniamino era coadiuvato dal figlio Carlo. L’attività commerciale proseguiva discretamente, anche se la vendita si faceva ‘ncredènze. Parecchi acquirenti pagavano al tempo del raccolto, se andava bene. L’oggetto che tutti necessariamente dovevano (e devono) acquistare era la fede in oro per il matrimonio imminente. La famiglia benestante, quando il figlio era fidanzato, in prossimità delle nozze, acquistava u fenemènte, il completo di gioielli: collana, orecchini e anello da regalare alla promessa sposa. Beniamino aveva contatti frequenti e con l’orafo di San Severo Benedetto Buono, per l’acquisto e le riparazioni dei gioielli e con l’orologiaio Michele Galasso, orafo fonditore, che venne a Serracapriola nel 1845 da Santacroce di Magliano, dove nacque il 12-03-1825. Abitava in via XX settembre n.46. La figlia Anna Carmela sposò il carabiniere Matteo Caiafa di Luigi, originario di S.Marco in Lamis, orologiaio pro tempore quando venne in paese nel 1911. I figli di questi: Aladino e Matteo Romolo, detto Nino, continuarono il mestiere di famiglia.
Il gioielliere Castriota svolse il suo lavoro con serenità fino alla prima guerra mondiale, epoca funestata dalla “spagnola”, una malattia contagiosa che colpì irreparabilmente la sua famiglia. In breve tempo perdeva tre figli: Vittorio Gaetano G. (1900-1920), studente in farmacia, Rosa Luisa (1903-1918) e Maria Palmina (1906-1918).
Fu anche sindaco di Serracapriola dal 24 -10 –1922 al 22-08-1926, eletto dal nuovo Consiglio, scaturito da una lista di transizione tra il fallimento della precedente amministrazione socialista e il trionfante fascismo con i futuri podestà. Un anno prima della fine del mandato di Beniamino Castriota, nel 1925, arrivò l’energia elettrica a Serracapriola. Quando sembrava che la parentesi dell’attività amministrativa lo avesse distratto dal suo dolore, una grandinata distrusse il raccolto della sua proprietà terriera. Il crak economico fu inevitabile e l’attività si fermò per alcuni anni. Beniamino Castriota cadde in una profonda crisi depressiva. Si rinchiuse in casa, dove morì il 10 gennaio 1944.
Nel 1933 il figlio Carlo Castriota (27/06/1897-29/11/1988), coniugato con la chieutina Concetta De Lillo (19/06/1907-07/09/1996), da cui ebbe quattro figli, Beniamino (Bébbé classe 1928) Angela Maria Lavinia (20/02/1932-28/07/1932), Michele (Liline c.1933), Rita (c.1937), riapriva la gioielleria in via Castagnaro n.4, locale dove era stato ubicato il negozio di stoffe di Lorenzo Gatta. All’epoca gli articoli da regalo che andavano per la maggiore erano i candelabri, la posateria e i soprammobili tutti in argento. I fidanzati prima dello scambio delle fedi nuziali si regalavano a vicenda gli anelli di fidanzamento con il brillante incastonato. Altri regali che la sposa faceva allo sposo erano l’orologio d’oro da tasca o la comune “cipolla” o la penna stilografica d’oro. L’oreficeria Castriota trattava la “Waterman Fountain Pen” d’oro, con il pennino a scomparsa, dal nome dell’inventore Lewis Edison Waterman, penna a fontana o penna a getto per gli anglosassoni, per gli italiani chiamata sempre “stilografica”, anche se negli anni ’920 e ‘930 si è cercato di imporre senza successo il termine “penna a serbatoio”. Per l’acquisto di altri gioielli Carlo trattava con l’orafo Giuseppe Buono di Benedetto. Un gioiello, ancora in voga oggi, era il pendetif, una catenina di oro con pendenti di brillantini a cascata.
Durante la seconda guerra mondiale le attività commerciali vennero rallentate, specie lo smercio dell’oro e dei preziosi. Così Carlo ripiegò con la vendita di prodotti di bigiotteria, alternando questa attività con il lavoro di consegnatario-contabile al centro ammasso di olio presso il Consorzio Agrario.
Nel dopoguerra riprese la sua attività di gioielliere a tutti gli effetti, coadiuvato dal figlio Michele (Liline) che diventò titolare dell’esercizio sempre in via Castagnaro n.4 nell’anno 1958. Negli anni ’60 il boom economico portò allo sviluppo delle attività commerciali. Per i regali importanti, in occasioni di cresime, prime comunioni, compleanni, si andava dal gioielliere Michele che presentava gli orologi da polso (prima prerogativa delle sole donne ora anche degli uomini) Bulova o Omega, anni ’60 con cassa in oro e caricamento automatico, le penne stilografiche Aurora, i lacce e lèccétte, catenine in oro giallo con il crocifisso. Per l’acquisto e le riparazioni di preziosi aveva contatti con l’orafo Delio Buono di Giuseppe (10-09-1930+03-01-1983), deceduto in ospedale per una ferita da arma da fuoco a causa di una rapina avvenuta nel suo laboratorio di San Severo.
Intanto il serrano Romano Cacchione, rimpatriato dal Venezuela, aprì nel 1968 una gioielleria al civico 141 di corso Garibaldi, ma deceduto per un tragico incidente, gli subentrò nel 1970 la moglie Carmela Cariota che morì nel 1977, lasciando un figlio di sette anni. L’attività restò chiusa per tre anni. Fu riaperta nel 1980 da Luigi Ciannilli, nipote della precedente proprietaria, che lavorò fino al 1993, anno in cui la gioielleria fu chiusa definitivamente (resta però nel settore dei preziosi il figlio dei coniugi Cacchione, Antonio, che, diventato un apprezzato orafo, ha oggi una sua oreficeria a Rimini).
Michele Castriota si ritrovò l’unico gioielliere in paese con la brutta esperienza di una rapina subita il 2 febbraio 1984. Due malviventi di sera con il volto coperto gli svaligiarono il negozio, uno con la pistola lo obbligò ad aprirgli la cassaforte e le vetrine, mentre l’altro teneva sotto tiro tre clienti di Chieuti.
Nel 1986 ritenne opportuno trasferire la gioielleria al civico 20 di corso Garibaldi. Nella nuova sede il negozio rinnovato, conservò l’antica scaffalatura in noce nazionale ben restaurata. L’ingresso blindato, protetto dal sistema di sicurezza e le vetrine antiproiettili, diedero serenità al titolare per proseguire il suo lavoro al servizio della clientela. Nell’anno 1989 però venne colpito da una forma di paralisi agli arti inferiori, ma continuò ugualmente a lavorare avvalendosi della collaborazione della sorella Rita. Il 19 luglio 1991 prima della chiusura antimeridiana si presentarono nella gioielleria tre presunti clienti interessati a dei gioielli. All’improvviso, rivelandosi malfattori, legarono e imbavagliarono Rita e Michele e svaligiarono la gioielleria, lasciando soltanto i gioielli esposti in vetrina. Questa seconda rapina prostrò il coraggioso Michele che si trovò ad affrontare oltre i problemi di salute anche quelli economici. L’attività commerciale però continuò fino al dicembre del 1998 quando il nostro gioielliere andò in pensione.
Il primo gennaio 1999 gli subentrò la nipote Gabriella, nata a Roma, dove la famiglia risiede, figlia terzogenita di Beniamino Castriota e di Maria José Castriota. Diplomata presso l’Istituto Magistrale “E.Fuà Fucinato” di Roma nel 1988, già coadiutrice dello zio dal 1994, Gabriella non si lasciò scappare l’occasione di occupare la titolarità vacante della Gioielleria, unica in paese, non solo per continuare la tradizione di famiglia, ma soprattutto per soddisfare ed alimentare l’innata passione per i preziosi e la competenza nel saperli valutare. Osserviamo negli antichi scaffali restaurati del nonno Carlo e nella vetrina blindata dell’ingresso dello zio Michele, in bella mostra i gioielli dal design moderno, i delicatissimi “punti luce”, i tanti anelli in oro bianco e giallo, gli orologi al quarzo, ormai tutti da polso, pezzi in argento ed il resto chiuso in cassaforte.
Entra nella gioielleria una vecchietta e mostra, per farlo valutare, un cimelio acquistato dal bisnonno di Gabriella, Beniamino, un sistema in oro con pietre preziose, collana tipica di manifattura della zona, che ogni donna portava in dote. Questo la dice lunga sulla fiducia secolare che la clientela serrana ha avuto ed ha per la gioielleria Castriota e ci porta a fare un resoconto dell’attività per bocca della titolare.
“Ai tempi di mio nonno Carlo c’era la fiducia reciproca tra il cliente e il gioielliere con la stretta di mano. Si pagava quando il cliente era in condizioni di farlo, di solito al raccolto dei prodotti agricoli. I rappresentanti dei preziosi arrivavano nel negozio con le borse piene di gioielli per far scegliere il prodotto. Con mio zio Lilino circolavano le cambiali e il credito aumentò assieme al rapporto con la banca. Oggi è il gioielliere che deve contattare i rappresentanti, i quali quando vengono a proporti i preziosi si limitano a farti visionare i cataloghi per ovvie ragioni di sicurezza. Nonostante che io sia l’unica gioielliera in paese l’attività da due o tre anni è in crisi ed ha i suoi alti e bassi per varie ragioni. Alcuni preferiscono andare fuori paese per gli acquisti. La forma di regalo è cambiata. Fra tanti “specchietti per le allodole”, specie i giovani scelgono altro o la bigiotteria, che ha preso il sopravvento con “i vu cumprà”. Il rapporto con alcuni clienti poi, anche se l’oro puro quota intorno ai 20 euro al grammo, è un continuo tiro alla fune, mè dè fè spèrègnè…mè dè fè spèrègnè…mè dè fè spèrègnè.”