I fabbri, ferrère, lavoravano il ferro per costruire svariati utensili e ferravano gli animali da tiro: cavalli, asini e muli. Oltre i propri attrezzi forgiavano anche quelli per gli altri artigiani. Erano indispensabili al loro lavoro: l'incudine, i martelli le tenaglie e, l'antica fucina a carbone alimentata dal mantice di pelle di capra che fu poi sostituita dalla forgia provvista di un cannello di ferro sottostante il focolaio per mandare l'aria necessaria a tenere acceso il fuoco mediante unamanovella. La materia prima era un ferro dolce, non acciaiato come quello attuale. Le botteghe di Tancredi Di Stefano, di Alessandro, Eugenio, Umberto Centuori, di Vincenzo Cardascia, di Vittorio Moscariello, di Ettore Rogato e di tanti altri pullulavano di apprendisti. Non si insegnava: il mestiere si rubava guardando e cercando di imitare quello che si vedeva fare agli altri e quando si sbagliava erano pedate e schiaffi.
 Fra questi artigiani del ferro Pasquale Cannito fu l'unico a dedicarsi soltanto alla mascalcia. Aveva bottega in via Gioberti, largo Teatro Palazzo. Ferrava animali che lavoravano sodo attaccati ai carri o agli aratri. Una ferratura di quelle più robuste non durava mai più di dieci quindici giorni. Appena arrivava un cliente con il suo cavallo, faceva accendere la brace della forgia. Intanto con la tenaglia toglieva dagli zoccoli i ferri vecchi estirpandone i chiodi con un coltellaccio, a sfèrr. Visti i tipi di zoccoli, 'creava' ferri su misura che si adattassero alla perfezione. Era il sistema migliore: la ferratura durava più a lungo e il cavallo camminava meglio. Batteva con precisione millimetrica sul ferro, reso incandescente dal carbone, che, sprigionando carbonio, lo rendeva più resistente. Se poi nel fuoco cadeva qualche pezzo di unghia del cavallo, l'azoto presente in questa materia organica entrava a far parte della composizione. Si otteneva cosi l'acciaio nitrurato. Sotto i colpi, diventando malleabile, veniva piegato, appiattito, e con le scanalature, con i buchi per i chiodi, assumeva la tipica forma. Poi lo poggiava con le tenaglie sull'orlo del plantare dello zoccolo per adattarlo alla forma desiderata e l'odore acre dell'unghia bruciata frammisto al fumo bianco saturava l'ambiente. Lo zoccolo, spianato con il pialletto, ròjene, e la raspa, era pronto per ricevere il ferro (già temprato nell'acqua), che veniva fissato con appositi chiodi, pòste. Il maniscalco con il martello li faceva fuoriuscire dall'unghia con le punte verso l'alto, formando una raggiera da ripiegare verso il basso, in modo da non farla sporgere sulla superficie dello zoccolo che doveva rimanere liscio e livellato.
 Il contadino, che aveva aiutato l'artigiano in tutte le fasi della ferratura, poggiava ogni zampa del suo cavallo suI cavalletto per far procedere con la lima alle rifiniture e per far eliminare residui di unghia sulla muraglia dello zoccoIo.
 Si conoscevano i piedi dei cavalli a memoria. Si correggevano i difetti con ferri ortopedici. Uno di questi era il ferro alla turca. E in un cantuccio della sua bottega Pasquale aveva l'archivio dei ferri degli animali con problemi ai piedi, come quello dei famosi calzolai che conservavano i modelli in legno dei piedi dei loro clienti più affezionati.
 Il ferro di cavallo aveva anche una funzione scaramantica. Non doveva mancare al superstizioso, che lo attaccava dietro l'uscio di casa, per proteggerla dal malocchio, secondo la diffusa credenza popolare.
 Il maniscalco fungeva anche da veterinario: i contadini chiedevano pareri sulla salute dei loro animali e all'occorrenza li facevano operare. La cavezza di forza, pèstore,e il torcimuso, torcèmuss, servivano a tenere fermo il cavallo per alcuni interventi chirurgici. Il salasso alla safena o alla giugulare si praticava con la lancetta, segnèture, sorta di bisturi triangolare che intaccava appena il vaso venoso per far fuoriuscire una certa quantità di sangue. Quando la bestia jéve rechjene de vòcch, cioè aveva il palato gonfio, per aver mangiato le spighe di grano con le ariste, il maniscalco le applicava l'apribocca, schèlètt è vite, atta a tenerle aperta e ferma la bocca per l'intervento. Utensile indispensabile anche quando doveva intervenire per asportare a fève, sorta di protuberanza callosa, o quando doveva curarle i denti o accorciarli con il seghetto per favorire la masticazione. Per i vari dolori le veniva somministrata una lozione alcoolica, u vescecànt. Ma l'operazione più delicata era la castrazione. Da noi si praticava quella cruenta con l'asportazione dei testicoli. I maestri abili nel rendere incapaci alIa riproduzione i cavalli erano Tancredi De Stefano e Pasquale Cannito, a cui i nostri contadini si rivolgevano per avere più che altro animali mansueti e pazienti nel lavoro.