Dalla Genesi "...E il Signore Dio aveva prodotto dalla terra ogni sorta di piante belle a vedersi e di frutto dolce a mangiare..." Jè bòn 'è mègnè , dicono i nostri contadini e fruttivendoli.
La coltivazione degli alberi da frutta avvenne nella zona del vicino Oriente, trecento anni dopo quella del grano, con piantagioni di olivi, viti, fichi e palme da dattero.
Da noi non si può parlare di frutticoltura razionalizzata con frutteti specializzati, ma c'erano numerosi alberi da frutta sparsi in tutti gli oliveti e vigneti. Esperti innestatori curavano le piante e li rinnovavano innestando nuove specie. Si raccoglieva tanta frutta di qualità che nel 1834 da maggio a novembre solo su San Severo convergevano trenta some di frutta al giorno oltre a quella diretta a Foggia, Larino e Termoli. I commercianti esportavano le nostre ciliegie persino in America. Ma la vendita continua che rendeva ai contadini e a tutta la comunità serrana era quella fatta dai tanti piccoli produttori che a schiena d'asino si recavano nei paesi vicini per vendere o barattare con altri prodotti le loro primizie. All'alba nelle strade, impregnate di forti e invitanti profumi di colazioni succulenti a base di peperoncino e pomodoro fritti, si sentivano i contadini invitare le mogli e i figli a preparare il materiale per la partenza:- Chèl'è basce i spertune p' fè a sòme, chè mè i fòre tèrr-. (Porta giù i corbelli per fare il carico, perché dobbiamo andare fuori paese).
Per le strade, sulle sedie appese ai muri vicino alle abitazioni dei contadini, c' erano piatti o cestini colmi di frutta in vendita. I bambini avevano il compito di andare per le case del vicinato a chiedere:- Vuliss nu piatt di scerèsce frisch?- (Vuoi comprare un piatto di ciliegie fresche?). Parte del prodotto autoctono veniva anche ritirato dalla rivenditrice Grazia Gabriele al punto vendita di Corso Garibaldi n.81 , dove al tramonto arrivavano i nostri contadini con gli asinelli carichi di frutta e verdure.
La maturazione del prodotto era associata alle festività religiose ricorrenti. Verso la fine di aprile, nella ricorrenza della festa dell'Incoronata, si assaporavano le prime ciliegie premòteche, i munèchèlle. Le più prelibate erano quelle beccate dagli uccelli. Poi i còcchèvèllute che come le amarene e i viscele venivano anche conservate sotto spirito.
Gli albicocchi, a fine maggio, con la festa di S. Fortunato, venivano alleggeriti dei polposi frutti, cresòmmele chèfone. Diffusi erano i gelsi carichi di gelse, civeze, sempre offerte sulle foglie in piatti bianchi di ferro smaltato per il loro succo violaceo scuro indelebile. Spesso noi bambini portavamo a scuola le foglie del gelso nella classe del maestro Primiano Orlando dove i suoi scolari allevavano i bachi da seta. Le gustose susine, velénece, e le piccole pere dal colore giallo, peréll, arricchivano la varietà della frutta di stagione.
Della famiglia delle pesche maturavano prima le squisite spiccagnole, pèrseche, le pesche noci, le noci persiche e nel mese di luglio le ottime duracine, precòche. Da alcuni anni il giovane perito meccanico Leonardo Maggio ha fatto la scelta della campagna rivalutando un vecchio podere in contrada Vaccareccia dove vive con la famiglia. Aiutato dal padre Michele, che cura la vendita dei prodotti, oltre all'orto coltiva un pescheto impiantato lungo il canalone della Mattonella che produce sei varietà di pesche e dieci di duracine precòche.
Il 15 di giugno maturavano i fioroni, e si diceva:- Fiquere è pèlluttun cà gòcce ncòppa pònte.- cioé i fioroni e i fichi in genere bisognerebbe mangiarli quando già hanno messo fuori dall'ostiolo il lattice, che non è affatto dannoso. I fichi che producevano senza caprificazione, contavano molte varietà autoctone. Dal 15 giugno fino ad ottobre inoltrato non mancava mai la dolcezza di pèlluttun, sàntepétre, chèrlèntine, gentile, verdèsche, trujène, vèllèréne, còrje, ferèòne, vuttètèll, còlòmbe, precenzòtt, serrèpètène. I contadini erano molto accorti nell'attesa della maturazione di questi frutti. Essa era improvvisa e si anticipava la raccolta affinché fioroni e fichi non fossero portati via da ladruncoli affamati; ma anche perché volevano portarli in piazza in perfetta maturazione per poter trarre maggiori guadagni. Il fico era l'albero del pane per la povera gente. E di gente povera di danaro ce n'era tanta. Oltre che per la raccolta i contadini erano bravi soprattutto per apparecchiare i panieri sempre foderati di foglie di fico. Questi frutti, pesati ca velèngiòle, venivano acquistati da impiegati e artigiani. I proprietari dei poderi e i fittavoli invece ne erano sempre forniti.
L'abbondanza del raccolto faceva si che buona parte del prodotto, in genere mangiato fresco, venisse sistemato su ampie spase e fatto seccare, èppèsselè, al sole. Poi i fichisecchi, fuqurèsécche, tagliati in due si farcivano con mandorle o noci e si mandavano al forno. Una volta cotti, venivano sistemati a strati con foglie di alloro, semi di finocchio e vino cotto, in orci, fusine. Altri fichi secchi interi venivano infilzati in listelli di canna in modo da formare un mosaico uniforme di frutti di forma triangolare, sperchièle. Così si conservavano e si mangiavano d'inverno. Nelle feste si offrivano a parenti e amici insieme con il rosolio, sempre fatto in casa. Era un modo empirico di trasformazione del prodotto (si preparavano anche le varie confetture e marmellate) che serviva al fabbisogno familiare e diventava fonte di guadagno quando si riusciva a venderlo.
Nonostante la scomparsa di moltissimi alberi da frutta alcuni agricoltori continuano a curare quelli rimasti e ne piantano di nuovi pe gràsce de chèse, ma non disdegnano di vendere anche il prodotto. Altri invece, come Giuseppe di Carlo che cura un piccolo ciliegeto e un albicoccheto di ninfa, di boccuccia e di san castrese, impiantano frutteti specifici per la vendita del prodotto all'ingrosso. Sono iniziative da incoraggiare, ma bisogna tendere alla trasformazione del prodotto e alIa sua commercializzazione in loco. *****
In piena estate i nostri contadini vendevano e vendono ancora tutte le varietà di cocomeri: è àcque, chèntèlupe, melòn'è pène, vernine (da conservare per l'inverno). Nelle fruttiere si vedevano le ultime pesche. A fine luglio si assaporava la prima uva ugliese, dagli acini piccoli e duri, mentre in settembre maturavano le altre varietà. Era un'uva ricca di zuccheri perché le vigne erano curate col sistema latino, è pègghièrèll. La produzione era scarsa a vantaggio della qualità del prodotto. I vitigni più diffusi erano: montèpulcène, chèlèbrèse, mèlvèsci, bòmbine, muschètellòne, muschète Tembùrr (d'Amburgo), spine, grill, ccèplòne e qualche altro. Si ottenevano vini da pasto di 14°. Durante la vendemmia si sceglievano i grappoli migliori e si appendevano nelle soffitte per ottenere l'uva passita. Si preparava anche la marmellata cuocendo l'uva nel mosto, l'uvècòtt. Dalla lenta bollitura del mosto si ricavava il dolce e denso mestecòtt che veniva utilizzato per fare i dolci natalizi e il sanguinaccio. Il sistema a spalliera dei vitigni cominciò a dare una produzione maggiore, ma sempre contenuta a favore della qualità. Le richieste di mercato portano oggi i viticoltori ad impiantare vigneti a tendoni con sistemi moderni d'irrigazione, per avere il massimo della produzione, di un' uva, però, povera di zuccheri.
In questo periodo maturavano le u1time prugne, perùne e vònghele, e della stessa famiglia i dolcissimi giuggioli, jéjéle. Le melegrane, murghènète, colte in anticipo, maturavano appese davanti ai bassi o ai balconi caratterizzando con una nota di colore la stagione. I peri innestati con il pero selvatico, peràzz, producevano moltissime varietà estive, autunnali e invernali facendo assaporare frutta diversa, saporita e non trattata. Prelibate erano le pere sèngiuvann del 24 giugno; i errmusine chiamate pére du vegneròle (pere del vignaiolo) perché i frutti piccoli, maturando di giomo in giomo, venivano mangiati quotidianamente dal contadino che lavorava il campo; i spèdune di agosto; i spenduncin: lunghe, gialle e succose; i mèrchesèll; i vrite fragili come il vetro; i perè vern, (mestròss), si coglievano ad ottobre e si consumavano durante l'inverno. L'abbondanza delle cotogne fino agli anni 88-90 dava la possibilità ai commercianti di ritirarle puntualmente ogni anno da un compratore locale a Porta Bianchini. Con questo frutto, il più delle volte bistrattato con l'epiteto chetògne nturzuse per la sua durezza indigesta, ma saporito nella piena maturazione o cotto al fomo, si preparava l'ottima cotognata, chetugnète. Le cotogne, pulite del torsolo e tagliate a pezzi con le bucce, venivano coperte di mosto e lasciate cuocere a fuoco lento in caldaie di rame. Ben cotta, la cotognata diventava solida e caramellata. Conservata nelle zuppiere, si consumava tagliandola a pezzi. Del sorbo restano pochissimi esemplari tenuti in scarsa considerazione. Le sorbe si raccoglievano giallastre in autunno inoltrato e si lasciavano maturare appese o sulle spase. Quando diventavano di colore marrone si gustava la polpa pastosa e morbida. I nèspele è cèppune, nespoli del Giappone, maturavano nella paglia e si mangiavano d'inverno.
Con il melo selvatico, melappje, mediante l'innesto si ottenevano altre varietà di meli che producevano i mèle è tenèll, chiamate così per la forma alta a forma di piccolo tino, le mele rosse e le pregiatissime mele GAETANELLE, chèitènèll, della cui produzione Serracapriola aveva il primato. I contadini, nel tempo della raccolta, che avveniva ad anni altemi, ènnèròle, in autunno, le trasportavano nti tenèll (corbelli di legno) e le vendevano all'ingrosso. Basse e panciute, dalla buccia dura e gialla in piena maturazione, le gaetanelle avevano la polpa soda ed erano profumatissime. I serrani si facevano le provviste per l'inverno. Le sistemavano sui piani superiori degli armadi e nei doppi fondi dei tiretti dei cassettoni, ndi còntrèfònn di chemò. Il profumo intenso di queste mele aleggiava per le case e la stessa biancheria ne era impregnata. I meli però venivano attaccati da un afide, la schizoneura lanigera, che copriva il tronco o i rami di strati di ragnatele cerose dove si nascondevano gli insetti. I frutti, invece, avevano un abitatore abituale che si nutriva della polpa: il bruco di color carnicino della Carpocapta pomonella. C'era una convivenza rassegnata tra questa mela, il verme e il contadino, che, senza fare lo schizzinoso, mangiava la gaetanella bacata (oggi proibita) consapevole della sua genuinità : - Se cià màgne u vèrme m'à pòzz mègnè pure je. - (Se la mangia il verme la posso mangiare anch' io).
Oggi i gaetanelli rimasti, ad eccezione di quelli di qualche coltivatore appassionato, non vengono più curati, per cui il prodotto, piccolo e scadente, marcisce sotto gli alberi. Ma ci sono segnali di risveglio per la frutticoltura per dare un'altemativa valida alle colture tradizionali. Con spirito imprenditoriale, i fratelli Ruberto, oltre a colture intensive di vigneti, oliveti e asparageti, in contrada Ciavatta presso il canale della Morgia, coltivano anche un pescheto ed un meleto. Quest'ultimo, nato come campo sperimentale voluto dall'Ispettorato Agrario di Foggia su un terreno di D'Alfonso Giancarlo, oggi è gestito dai Ruberto. E' un meleto che ha attecchito bene da noi e producece quattro varietà di mele Gala del Trentino. Incontriamo, porò,le difficoltà maggiori nella commercializzazione del prodotto per i costi di trasporto presso i punti vendita. - dice Raffaele, il più giovane dei fratelli. Non renderebbe di più un mandorleto, considerando che il mandorlo richiede poche spese di manutenzione, poco acqua e il frutto può essere conservato? Certo! - conferma il chieutino Raffaele Brunetti -. Nel 1990 bo avuto un mandorleto moderno di cinque ettari, con varietà sperimentate su consiglio del Consorzio di bonifica, che mi rendeva bene. Lo terrei ancora se non si fosse ammalato di verticillium (malattia che può attaccare tutti gli alberi da frutta} per cui dovetti abbatterlo.
Un tempo la coltivazione dei mandorli era florida e si estendeva intorno alle masserie e in ordine sparso fra oliveti e vigneti. Oltre alla qualità più diffusa c'erano i mènnele è dént: mandorle dal guscio tenero che si potevano rompere facilmente con i denti e le mandorle amare. Le mandorle si raccoglievano in autunno e tutta la famiglia si recava in campagna pe vàtt i mènnel. Pulite dal mallo nerastro, indice della loro maturazione, venivano esposte al sole su teloni, rachene, per farle ben asciugare. Quello che rimaneva dopo la vendita veniva conservato per uso domestico. Quando si sentiva il caratteristico picchiettio del martello, che con ritmo cambiava voce nel rompere i gusci delle mandorle, era segno che si avvicinava il Natale. Le mandorle in questa festività si usavano come ingredienti principali per preparare dolciumi: pasta reale, mustècciole, mèndelèterrète, torrone. Oggi nella vicina San Paolo di Civitate la florida industria di trasformazione della frutta secca (mandorle, noci, nocciole, arachidi) di Di Nunzio SRL, che recupera anche alcuni prodotti in via di estinzione come lupini, ceci, fave e cicerchie, dimostra come l'impegno e la perseveranza prima o poi ripagano delle fatiche e dei sacrifici.