Una delle svolte fondamentali della storia dell'umanità è
stato il passaggio dall'età paleolitica a quella neolitica, età
in cui l'uomo cominciò a notare la ciclicità della natura,
a riconoscere una pianta tossica da una commestibile fino ad arrivare all'invenzione
dell'agricoltura che, insieme alla pastorizia, assicurava stabili approvigionamenti
che la caccia non poteva offrire.
L'agricoltura iniziò nella zona d'Oriente chiamata "Mezzaluna
fertile" comprendente le pianure costiere libano-siriane, le vallate
dei fiumi Oronte, Giordano ed Eufrate e tutta la Mesopotamia, in un arco
di tempo che va dall'ottavo millennio al settimo.
Poi si diffuse prima in Asia Occidentale, poi nella valle del Nilo, infine
in Europa coprendo un lasso di tempo che va dal 6000 al 2000 a.C. Le sementi
rinvenute nei villaggi neolitici sono: il frumento, l'orzo, il lino, i piselli,
lenticchie, ceci, veccia. Con molta probabilità nell'agro di Serracapriola i primi neolitici
cominciarono a lavorare la terra alla fine del secondo millennio a.C. Essi
non capivano ancora che smuovendo il terreno, produceva di più; appena
se ne resero conto incominciarono a lavorarlo con strumenti di selce (pietra
molto resistente) (Infatti oggi i nostri agricoltori con le loro mastodontiche
aratrici da scasso portano alla luce in parecchie zone del nostro agro questi
reperti preistorici), poi impararono ad ararla con rozzi aratri ricavati
da tronchi d'albero.
L'aratro nacque dal perfezionamento della zappa. Esso serve, come la
zappa, per dissodare e rivoltare la terra. Poi l'uomo inventò il
vomere che è la parte più importante dell'aratro, quella che
taglia la terra e la rovescia; era sempre di ferro, anche se le altri parti
erano in legno.
L'efficacia dell'aratro dipendeva molto dalla sua costruzione, che variava
in base alla località e al tipo di terreno da coltivare.
Nei nostri aratri a chiodo il ceppo era lungo e stretto. La stegola quasi
dritta, munita d'impugnatura, era infilata nel ceppo 30-40 cm. dietro la
bure. A entramhi i lati dell'attaccatura della bure c'erano due brevi versoi
a forma di ceppo. A tutt'oggi nel nostro paese di questi aratri di costruzione
leggera ricavati da rami d'albero ne sono restati due esemplari, differenti
nella foggia dei vomeri a chiodo e a pala, custoditi da Bibò Domenico
e da Calluro Nicola.
Il modo di procedere nell'aratura dipendeva anche dal tipo d'aratro.
Il tradizionale aratro di legno poteva andare avanti e indietro, cioè
girare di 180 gradi alla fine del solco (suleche) e tracciare
poi un nuovo solco, muovendosi in senso opposto.
Un tempo col vecchio aratro di legno si distinguevano quattro arature
consecutive: la prima era l'aratura, a cui faceva seguito la stroncatura,
trasversale alla precedente, in cui si procedeva a ritocchino e la seconda
stroncatura a cavalcapoggio: le creste ottenute in questa maniera venivano
poi divise a metà mediante la spaccatura dei cigli.
"Le lavorazioni del terreno precedenti alla semina, son fatte con
buoni aratri Sack, Flother, Oliver, o con discreti aratri pure di ferro,
cosiddetti francesi, di fabbricazione locale. L'aratro chiodo, di adamitica
memoria, si è fortunatamente bandito e non si usa che per l'imporcatura
e pel ricoprimento del seme quando il terreno di soverchio bagnato mal si
presterebbe all'uso di altri strumenti, come polivomeri, aratri di ferro,
ecc.
...Con questi aratri il terreno viene preparato con tre arature, di
cui la prima s'incomincia al 17 gennaio, e con essa si rompe la terra: poi
si fa il secondo coltivo, ristoccare, e nella primavera il terzo, rinterzare:
quando si hanno molti animali ed il tempo non manca per accelerare e intensificare
il lavoro, si fa anche una quarta aratura, rinquartare. Questo per il terreno
che viene preparato a maggese, che si dice crudo: se invece sulla terra
si sono seminate fave, essa viene zappata quasi sempre due volte ed arata
subito dopo che le fave si sono estirpate...
... Tutti i terreni poi vengono disgrossati nell'autunno (arrussati)...
... A spianare le piccole zolle (scaghiavunà) prima
si adoperavano le zappe, poi le frasche legate a lunghe pertiche o a piccole
scale, tirate da buoi e cavalli, ora anche l'erpice. La zappettatura (zappeliatura)
si fa per due volte, cominciando in febbraio o marzo...".
Questo scriveva nel 1915 Alfredo de Luca nel suo libro su Serracapriola.
Ancora oggi c'è chi continua ad andare in campagna sul calesse
trainato da un cavallo nocciola da tiro di razza polacca, in compagnia di
due vispi cagnolini (pumétte) e ad usare i mezzi su
descritti per il suo lavoro: "Continuo a lavorare i miei campi (trenta
passi di oliveto con vigna a Colle Castrato, una versura di oliveto con
vigna a Valle Fornace, mezzo ettaro di terreno a Boccadoro) con il cavallo
per pura passione.
Durante l'estate aro con il bivomere e con la "coltella" per
livellare le zolle (tempune). D'inverno, quando il terreno
è bagnato, aro con l'aratro francese, invece sull'asciutto con il Flother.
Anche se potevo comprare il trattore non ho voluto staccarmi dalla mia
Stellina: una giumenta di 27 anni che comprai nel 1969 dall'allevatore di
cavalli da tiro Alessandro D'Adamo. Madre di sei puledri, è stata
sempre in buona salute: Si nutre di biada, paglia, crusca e mi costa mille
lire al giorno, tenendo presente che in primavera pascola liberamente.
Prima ebbi una giumenta nera murgese e un mulo. Sono un esperto conoscitore
di equini perché da piccolo ho vissuto in mezzo a loro. Ecco perché
li amo e li rispetto".
Così dice Vaccarella Fortunato, di anni 68, l'ultimo superstite
della civiltà contadina protagonista di un equilibrato ciclo naturale
uomo-animale-letame (gratuito ed innocuo).
Orlando Antonio invece, figlio dell'agricoltura meccanizzata,
fatta di imponenti aratrici da scasso ("creature" costosissime
dell'industria che distruggono la fauna batterica del terreno), ed estroso
meccanico-miniaturista, non disdegna di costruire in ferro battuto dei fedelissimi
modellini di vecchi aratri ormai in disuso, che potrebbero diventare dei
souvenirs se prodotti su larga scala.
Per ravvivare la memoria si potrebbe allestire a Serra con la partecipazione
di tutta la cittadinanza, un museo delle attrezzature agricole, per documentare
non solo i limiti di una civiltà passata, ma anche la creatività
di un alto artigianato che potrebbe rifiorire con scopi diversi da quelli
del passato. Non solo un contenitore di oggetti ma un museo-vivo che abbia
una funzione didattica, di studio degli aspetti della vita popolare. Certi
che indietro non si torna e che avanti c'è il caos, il compito di
ogni ricerca etnografica è lo studio del passato per costruire un
presente a misura d'uomo.
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