In genere si aspettava la fiera di S.Rosalia per acquistare gli animali, specie il maiale, ‘u purcèlle. C’era l’usanza da parte di quasi tutte le famiglie serrane di allevare in casa almeno un suino. Chì nté guè ce càtt’u purcèlle. Nelle strade e anche lungo il corso il porco aveva la sua ora d’aria, e si sentiva la puzza ancor prima di vederlo davanti agli usci delle case. Veniva allevato con la crusca, con le ghiande, con gli avanzi del pasto quotidiano della famiglia e con il granturco, grènóne,. La bontà della carne era rapportata al cibo che l’animale mangiava, poiché la natura non regala niente a nessuno. I sacrifici della massaia nell’accudirlo (il trogolo,’u tròcche, sempre colmo di pastone il cui legante principale era la crusca frammista ad altri svariati ingredienti) e la sua soddisfazione nel vederlo sempre più grosso e grasso venivano ripagati allorquando si avvicinava l’ora della festa. La vita del porco all’ingrasso durava circa un anno. Tanto che a chi compiva gli anni (ad es. 71) si diceva:- Cumpà! Che vè truvànne! Sì ruvvète è chèmpè (70) settènt’ anne cchiù du porche!- Di tutti gli animali da cortile il porco è il più sporco ma senz’altro il più redditizio. A quei tempi nel mese di dicembre ammazzare il maiale era un festoso appuntamento. Un rito, pe ccide ‘u porche senzè delóre, a cui partecipavano tutti i parenti ed anche il vicinato se la famiglia non era numerosa, perché la gioia aumenta, a differenza del dolore, dividendola con gli altri. Una gioia che scaturiva dalla certezza di assicurarsi per tutto l’inverno una provvista alimentare adatta ai rigori del freddo e della neve, grazie alla bestia che inconsapevolmente ripagava i sacrifici dei suoi allevatori. Intanto tutto era pronto. Il fuoco del camino riscaldava l’acqua in una grossa caldaia di rame, chècchèvèlle. Le donne preparavano i vari tegami, i mesèle e le salviette. I bambini giocavano. Gli uomini parlottavano vicino all’angusto recinto del condannato. – È vero che il maiale sente di dover morire?- Certo! Vedi come è nervoso, la bestia con il suo istinto avverte l’ora del suo destino.- Arrivava finalmente il norcino, ‘u ccìdèpórce, con i ferri del mestiere e l’uncino a portata di mano. Gli uomini facevano uscire il maiale, che emanava gli ultimi grugniti, dal posto dell’ingrasso e lo prendevano per le zampe, mentre il norcino gli conficcava l’uncino sotto il grugno, tirandolo su una panca. Veniva lì sgozzato. Il sangue, che diventerà sanguinaccio, come primo prodotto, arrivava di getto nel tegame che la massaia reggeva sotto la gola del malcapitato. Dopo averlo adagiato sul pelatoio, pelèture, già disposto su un tavolo, il norcino lo pelava versando l’acqua bollente, a temperatura giusta per non rovinare la cotenna, su quel corpo destinato a deliziare i palati di tutta la famiglia presente all’operazione. I peli servivano per fare i pennelli (c’era una razza suina con setole adatte per fare i pennelli da imbianchino). Rifiniti i particolari con il rasoio, si passava a infilare nei tendini delle zampe posteriori dell’animale una sbarra di legno, vèmmegghjére, per appenderlo sotto la volta della stalla. Era il momento del taglio. Veniva sezionato dall’inguine alla testa. Sventrato e liberato delle interiora. Le budella, il peritoneo, rézze, la vescica, che sarà il contenitore dello strutto fuso, venivano ben lavate e raschiate, in attesa dell’uso. Il fegato, i polmoni, l’esofago, vrucchelère, e i panni di strutto insieme alla carcassa restavano appesi per 24 ore per far rassodare le carni. Il giorno dopo il norcino lo sezionava in tante parti, èmè spèrtì u pòrche. Era l’occasione per regalare agli amici più stretti pezzi di costatine, rróste. Dal taglio venivano fuori: le zampette che, tolte le unghie, venivano messi come le cotiche, la testa e le orecchie in salamoia, ‘a nchèndèrète ndu chèndèrèlle, due prosciutti, le spalle, le ventresche, i capocolli, i ciccioli, ciquele (con cui si preparava la pizza), il cotechino, il lardo, la pancetta. Il resto della carne serviva per fare i salami: salsicce e soppressate. Una salsiccia particolare era u cèbbùseche, fatta di carne tritata finemente per poterla spalmare sul pane. A fechètazze fatta con fegato, frattaglie, grasso, buccia di arancia tritata e peperoncino forte. E non potevano mancare i nógghje, preparati con budella grasse riempite di strisce di trippa, sale, semi di finocchio e peperoncino. Delle parti non commestibili, oltre la vescica e le setole di cui abbiamo già parlato, si utilizzavano le unghie per ricavare colla, concimi e blu di Prussia e la cotenna per il rivestimento delle selle degli animali da soma. Il porco oggi aiuta anche la medicina per il dono dei suoi organi, simili a quelli umani, per i trapianti e per ricavare farmaci: dall’intestino si ottiene l’eparina per la prevenzione della trombosi venosa, dal pancreas l’insulina e dal polmone un farmaco per i neonati prematuri. Quindi al divin porcello, scrofa o verro, un monumento si dovrebbe erigere. Porco è sinonimo di sporco. Spesso la persona umana si merita questo appellativo per i danni che arreca alla collettività. Ma se lo sapesse il vero porco farebbe lo sciopero della fame.
Durante il periodo fascista l’abitudine dei serrani di allevarsi il porco in casa cominciò a creare disagi nella popolazione, tanto che una ordinanza podestarile proibì l’allevamento casalingo e venne creata una porcilaia in contrada Defensa, dove ogni famiglia portava il proprio maiale e ne curava l’ingrasso. Nel 1946 il sindaco comunista Domenico Carrara invece liberalizzò di nuovo l’allevamento dei suini rassicurando così, in un comizio, i serrani:-…Cittadini, ora siete liberi di crescervi il porco anche sotto il letto!…-