Odore di morto
  Nel petto dell'uomo di Dio padre Matteo era così grande l'incendio della carità che gli ardeva, che "non perdonava a fatica" né aveva riguardo ai caldi estivi eccessivi o ai freddi rigorosi di verno, né a disagio o patimento di sorta alcuna, anche col rischio della vita, per sovvenire ai prossimi.
 Trattenendosi con lo studio nel luogo di Lucera, padre Matteo fu avvisato che il padre Tommaso da Trivento, ministro provinciale, nella santa visita alla provincia, era caduto infermo nel convento di Serracapriola e che dei medici "il davano per morto".
 Nonostante che "di quei giorni corresse un orrido inverno", padre Matteo si risolse d'andare a visitarlo ed assisterlo. E perché "le nevi e i fanghi" rendevano impraticabili le strade, si pose a cavallo: e partito da Lucera con un giovane secolare di forze robusto, fece in una sola giornata "ventiquattro miglia di quel paese, che saranno quaranta in circa dei nostri". Giunto al convento di Serracapriola, gelato di freddo, sbattuto dalla cavalcatura, e "con l'anima tra denti", nulla stimando il suo patire, Padre Matteo tirò incontanente alla cella del "poco meno che moribondo provinciale". Abbracciatolo strettamente con le lacrime agli occhi, gli recò tanta consolazione ed allegrezza, che l'infermo per la sua presenza si sentì sollevato a meraviglia dal male.
 Terminate le amorevoli accoglienze ed i vicendevoli abbracciamenti, padre Matteo "diede di piglio ad un pezzetto di veste del glorioso san Carlo, la quale portava seco". Posto il pezzetto dentro un poco d'acqua, "orò alquanto inginocchioni", con recitare l'antifona e l'orazione del Santo; e poi la diede a bere all'infermo, il quale con "quella celeste bevanda" ricuperò la sanità.
 I frati affermarono che, poco prima dell'arrivo di Padre Matteo, il Padre provinciale non solo era stato abbandonato dai medici, avendo essi perduta ogni speranza della sua vita, ma che ancora "la cella rendeva odore di morto" (Annali, t. llI; parte I, anno 1616, n.98).

  Invenzione d'un uomo malvagio
 Quanto gran zelo avesse il servo di Dio fra Matteo della salute delle anime, redente con il sangue preziosissimo del Figlio di Dio, si può raccogliere dal seguente fatto.
 Mentre era guardiano e lettore, cioè insegnante, nel convento di Serracapriola, gli fu riferito che in Chieuti, Casale d'Albanesi, i quali seguono il rito greco, una Madonna di pittura antichissima, in una chiesa fuori dell'abitato, "faceva molti miracoli", ove vi concorrevano i popoli vicini in gran numero.
 Temendo il servo di Dio che non fosse nascosta qualche illusione diabolica, "si diede a fare orazione affettuosa alla Maestà divina col pregarla a non permettere, che quelle genti fossero ingannate dal demonio". Il Signore lo illuminò e gli fece conoscere, che quella "era opera del diavolo e l'invenzione di un uomo malvagio, tirato dal desiderio di guadagno".
 Sermoneggiando, perciò, il servo di Dio una mattina ai frati nel refettorio "sopra questo fatto", disse fra le altre cose: "Oh padri e fratelli miei, se quella strada che va alla Madonna degli Albanesi avesse lingua e quelle piante potessero favellare, quanti peccati paleserebbero che si commettono con l'occasione del concorso a questa chiesa; e col pretesto che la Regina dei Cieli vi faccia molte grazie! Pertanto è di mestieri che ci opponiamo alle arti maligne di Satanasso e procuriamo di far palesi le frode degli uomini perversi".
  E, levatosi dalla mensa, e rendute le grazie, il servo di Dio mandò incontanente due frati a pregare "alcuni divoti ed amorevoli" di quel Casale che non mandassero più le loro figlie scalze, come facevano, alla Madonna.

  Lacrimoso spettacolo
 Nel frattempo il servo di Dio scrisse a mons. Giovanni di Larino, con dargli parte di quell'inconveniente e supplicarlo che valendosi del suo zelo e prudenza, si degnasse di rimediarvi.
 Ricevuto l'avviso, mandò subito il vescovo commissione all'istesso fra Matteo, con ogni sua facoltà affinché, con due altri sacerdoti secolari da lui nominati, uomini di molto spirito, si portasse a quella Madonna e facesse diligente inquisizione intorno alla verità dei miracoli che ivi si pubblicavano.
 Il servodi Dio vi andò con gli "assessori" assegnatigli da monsignore e facendo aprire le porte del tempio ch'erano chiuse, "vi ritrovò dentro una quarantina di donne fra maritate e donzelle, con molti fanciulli ignudi"; e "chi ballava, chi agitava le braccia e chi i piedi, chi tremava con tutto il corpo, e tutti vi si dimenavano con vari moti ed atteggiamenti poco modesti".
  Si commossero a così lacrimoso spettacolo le viscere del devoto Padre Matteo e, fatta alquanto orazione avanti all'immagine della beatissima Vergine, celebrò messa sopra un altare di rito latino, ove era un'effige del padre san Francesco. Nel levare in alto il Santissimo, due di quelle donne incominciarono "a mandar grida infino al Cielo, come se fossero spiritate", con grande spavento dei circostanti.
  Finita la messa, Padre Matteo fece accostare tutti quei "finti o veri malati" all'altare della Madonna ed ordinò loro che recitassero l'Ave Maria e si facessero il segno della santa Croce; "dopo il che cessarono di tremare e ballare".

continua