Sotto le insegne del serafico Padre
  Quei padri che maneggiavano l'anima di Prospero,lo sapevano inclinato a servire il Signore, "invaghiti della eminenza del suo ingegno e della purità della sua coscienza", incominciarono a persuaderlo ad entrare nella loro religione (Compagnia di Gesù).
  Mosso dalle loro ragioni e più dalla loro esemplarissima vita, Prospero vi avrebbe acconsentito, quando un suo amico, studente di legge, al quale comunicò l'istanza che gli veniva fatta, non l'avesse dissuaso, esortandolo a farsi cappuccino, con promettergli che anche lui, subito che si fosse sbrigato da alcuni affari domestici, l'avrebbe seguito nella medesima religione, sì come fece. E questi fu il padre Tommaso da Trivento, che riuscì uomo di grande spirito e divozione.
 Tocco da Dio nel cuore, per l'esortazione dell'amico ad abbracciare la milizia di Cristo sotto le insegne del serafico Padre, non potendo ritornare in patria per l'omicidio commesso (tutto che senza sua colpa) e del quale non si era ancora giustificato e né aveva potuto ottenere la remissione dalla madre dell'ucciso fanciullo, Prospero si presentò al ministro provinciale dei Cappuccini nel convento dell'Immacolata Concezione di Napoli e con molte preghiere, umiltà e fervore di spirito lo supplicò a riceverlo per novizio.
 La venustà del volto del giovinetto, che appena aveva compiuto i sedici anni, la modesta composizione dell'uomo esteriore, la fervorosa domanda di servire a Dio e le prudentissime risposte da lui date ad alcune interrogazioni che gli fece il padre provinciale, si guadagnarono "di modo il suo animo", che senza dimora alcuna ricevette all'Ordine (cf o.c..nn.60-61).

 

 Fra Matteo d'Agnone
 Il padre provinciale lo mandò a vestire l'abito nel luogo vecchio di Sessa e gli impose il nome di fra Matteo.
 Preso l'abito, subito s'aggiustò in maniera al nostro modo di vivere, che "non gli recando alcuna molestia l'austerità della vita, godeva nei patimenti, giubilava nelle mortificazioni, e si portava in tal guisa in tutte le sue azioni, che dava saggio d'ottima riuscita" (o.c.,n.61).
 Durante l'anno di noviziato, poco prima della professione, a fra Matteo morirono il padre e la madre e il nemico infernale pigliò occasione opportuna per combatterlo fieramente, non tanto perché con questa morte veniva a succedere nell'eredità paterna ed essere padrone di casa; quanto perché tre sue sorelle fecero istanza al padre generale, ch'essendo restate sole e né avendo chi le governasse, volesse licenziare dalla Religione il fratello per l'estremo bisogno che avevano della sua assistenza.
 Il padre generale, informato delle virtù e fervore di spirito del novizio, gli ordinò che così vestito dell'abito si portasse ad Agnone, per soddisfare alle importune preghiere delle sorelle, dandogli assoluta facoltà o di restare nel secolo o di perseverare nell'Ordine.
 Fu gagliardo questo combattimento nel cuore del novello soldato di Cristo, ma non ebbe forza d'abbatterlo. Andato alla patria per ubbidire, fra Matteo senza punto piegarsi alle lacrime delle sorelle, ne intenerirsi alle suppliche affettuose dei parenti, dispose con molta prudenza e maturità gli affari di sua casa e con grande ammirazione dei secolari, né minore esempio dei frati fece ritorno speditamente a Sessa, ove teneramente abbracciato dai professi, per questa costante fermezza nel proponimento di servire a Dio, fu indi a poco ammesso ai voti solenni (o.c., n.62).

 

Il suo fondamento stabile
 Destinato di famiglia al convento di Aversa, fra Matteo si diede con ogni sollecitudine all'esercizio della mortificazione ed allo studio non più delle lettere,ma dell'orazione: di continuo supplicava con affetto cordiale la Maestà divina a concedergli perseveranza nel bene incominciato e grazia di mantenersi umile nel suo divino cospetto.
 Questo fu il fondamento stabile e fermo del virtuoso edificio della perfezione nel cuore di fra Matteo: l'umiltà e il basso sentimento di sé. Una sera, al sentire che si doveva tagliare nell'orto un arancio che si era seccato, fra Matteo andò subito in coro ai piedi di Gesù crocifisso e gli disse: "Mio dolcissimo Signore, io sono l'albero infruttuoso, che merito di essere reciso e spiantato dal giardino della Religione, io che non vivo come dovrei, ne son buono per altro, che per il fuoco dell'inferno". E in questo dire sgorgò dagli occhi un profluvio di lacrime, con proponimento di voler profittare d'indi avanti nel bene, particolarmente nella mortificazione dei sensi, nell'amor divino e nell'acquisto della serafica perfezione (o.c.,n.63).

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