L’economia di Serracapriola da sempre fonda le sue radici nel settore agricolo. Non possiamo, quindi, ignorare alcuni eventi storici.
I terreni ricavati da quasi tutti i boschi dissodati, vennero coltivati, ed essendo vergini diedero raccolti ubertosi. Dal 1870 al 1880 si ebbero annate fertilissime, che diedero ulteriore benessere ai proprietari terrieri residenti a Napoli, ed ai contadini la povera ricompensa al duro lavoro. Nel periodo della semina i coloni che non avevano i mezzi per acquistare il seme potevano chiedere il mutuo alla Cassa di Prestanza Agraria (1875): £ 100 per ciascun colono con l’interesse a ragione di tempo del 16%. La coltura delle foraggiere prese il sopravvento sul maggese. La razionalizzazione dei concimi venne impiegata su larga scala. Così si valorizzavano i terreni, come quelli della contrada Montesecco, fiore all’occhiello della provincia.
Dai primi anni del 1900, fu abbandonata la coltura intensiva: orti e vigneti, vanto del nostro paese. Restò la tradizionale coltura degli oliveti e prese piede la cerealicoltura, da cui il nostro agricoltore traeva maggior guadagno. La coltura principale era il grano, la cui vendita nel 1913 quotava £.14 al tomolo. Si coltivava anche l’orzo e molta avena che si dava come mangime agli equini, da noi risorsa essenziale per il traino e per i lavori di campagna. Il favino e il granturco erano alimenti per i suini ed altro bestiame. Nel 1914 ci fu una cattiva annata (na mmèl’ènnète) di grano.
L’attività agricola migliorava grazie al gran numero di attrezzi, prima sconosciuti. Negli anni ’15 operavano nell’agro di Serracapriola circa cento mietitrici e più di venti falciatrici, nonché dodici macchine a vapore per la trebbiatura dei cereali. Con queste ultime i proprietari Luigi Castelnuovo, Ernesto Torres, Tancredi De Stefanis e Matteo Leone lavoravano per conto terzi, mentre gli altri (Fortunato Castelnuovo, i F.lli De Luca fu Domenico, Francesco Alberico, Giuseppe Giuliani, De Luca Michele fu Pasquale, Pettulli Francesco e Florindo Magnacca) lavoravano per conto proprio. Dal 1933, grazie al Consorzio Generale di Bonifica della Capitanata, vaste zone paludose vennero bonificate ed utilizzate come terreni agricoli. L’obiettivo dei nostri agricoltori era il raggiungimento dell’autosufficienza cerealicola. Il sistema autarchico fascista, teso a soddisfare (per motivi bellici) il mercato dei beni di consumo solo con le risorse interne, limitando le importazioni, portò all’arresto dell’agricoltura.
Negli anni ’40 i nostri agricoltori erano suddivisi in tre organizzazioni separate: la Confagricoltura (l’organizzazione dei latifondisti ad indirizzo conservatore), la Col diretti (l’organizzazione dei piccoli proprietari, legata alla chiesa ed alla Democrazia Cristiana), l’Alleanza Contadina (l’organizzazione del Partito Comunista –oggi =C.I.A.). Tripartizione tuttora esistente, nonostante la scomparsa del latifondo.
La trasformazione vera della nostra agricoltura, grazie ai governi democratici cristiani, iniziò dopo la II guerra mondiale con l’economia di mercato. Le grandi opere di irrigazione riportarono l’agricoltura alla coltivazione intensiva con la bietola da zucchero, il pomodoro da industria, le produzioni ortofrutticole, la vite, l’olivo, e il frumento che restava la coltura predominante. Il largo uso dei concimi chimici soppiantò il letame. L’arretratezza iniziale dell’agricoltura che portava alla disoccupazione bracciantile fu risolta con una serie di provvedimenti atti ad elevare il tenore di vita delle classi più abbienti (Piano decennale sulla meccanizzazione ed irrigazione, la Cassa per il Mezzogiorno, il credito agrario, semi selezionati, concimazioni appropriate, l’approvazione di due Piani Verdi e la Riforma Agraria). Negli anni ‘50 con la Riforma Fondiaria ci fu l’esproprio dei terreni ai grossi latifondisti. Alla sola famiglia Maresca su 1000 ettari di terreno furono espropriati più di 400 ettari, spezzettati poi dall’Ente di Riforma in poderi di ha 7,20 ciascuno e distribuiti agli assegnatari. Tentativo fallito di far abitare la campagna. Dal 1960 il duca Antonino Maresca conduce egli stesso i restanti 550 ettari di terreno a produzione di grano duro, ceduto all’industria Barilla.
La neonata “Cooperativa di servizi collettivi per la Riforma Fondiaria di Frentana” nell’assemblea dell’11 settembre 1956 deliberò la vendita del grano dei soci al prezzo di £ 9.100 per quintale alla ditta Papa ed Arciuli di Bari.
L’adesione al MEC (Mercato Comune Europeo) e la creazione della PAC (Politica Agraria Comune) istituita dal Trattato costitutivo del MEC, firmato a Roma il 25 marzo 1957, sono di sprone e di sostegno alla modernizzazione della nostra agricoltura.
Per sopperire al fabbisogno dei paesi europei il grano duro veniva importato dall’estero. Questo però danneggiava i nostri cerealicoltori il cui guadagno si basava essenzialmente su questo prodotto. Il prezzo del grano importato, infatti, era più basso. Per evitare una deleteria concorrenza venne concessa l’integrazione di prezzo e imposta una tassa all’importazione. La stessa erogazione venne concessa anche agli olivicoltori per assicurare la sopravvivenza degli oliveti e della produzione del nostro pregiato olio doc.
Un dato sulle spese a carico dei datori di lavoro: nel mese di maggio del 1990 la retribuzione della manodopera agricola si aggirava in media al giorno per ore 6 e minuti 40 di lavoro, per gli uomini intorno a £.50.000 e per le donne a £.45.000. In più bisognava aggiungere circa £.18.000 di contributi agricoli unificati per ogni giornata lavorativa.
Dal censimento dell’agricoltura dell’anno 2001 sono risultati i seguenti dati forniteci dal tecnico agrario dott. Michele Gagliardi, responsabile a scavalco dell’Ufficio Agricolo di zona di Serracapriola oggi “Assessorato Risorse Agroalimentari”:
Agro di Serracapriola ha 12.949,09; investiti a semina ha 10.416,05 (di cui 7.621 investiti a frumento -nel 1999 ha 9.000-); a olivi ha 1.200; a viti ha 260,72; a prati e pascoli ha 186,68; a boschi ha 514,83; superficie non utilizzata ha 370,81.
Tra le varietà pregevoli di semi di frumento duro dell’Istituto Sperimentale per la Cerealicoltura, SOP di Foggia (Masseria Manfredini-1919) nella nostra zona sono stati sperimentati il Gargano, il Lesina e il Varano. Se non fosse stato “medio-tardivo” il più indicato sarebbe stato il Varano (richiesto dalla De Cecco).
Attualmente le sementi per la semina del grano a maggior uso nel nostro agro sono: Claudio, Duilio, Simeto, Svevo. Quest’ultimo viene richiesto dalla “Barilla” perchè dà una semola di colore giallo intenso, ricca di proteine. Nell’annata 2005 la media del raccolto di frumento è stata di circa 30/35 quintali ad ettaro. Il grano è stato pagato a 14 euro al quintale, mentre il frumento biologico (prodotto a Serracapriola da Ennio Petti, unico coltivatore del settore) a 18 euro al quintale più l’aiuto comunitario di 117 euro ad ettaro. I due più grossi contenitori per l’ammasso del grano e delle olive sono la cooperativa Frentana e la ditta Agrideavallillo s.r.l.
L’abbondante raccolta di olive della scorsa annata, di circa 45.000 quintali, ha dato una boccata d’ossigeno a molti coltivatori in precarie condizioni economiche. È valso l’antico detto “A culè nére è ppèrète i pàll”. L’assenza di parassiti, che ha lasciato integre le varietà delle nostre olive (ogliarola barese, coratina, frantoio, leccino, monacella, peranzano, provenzale -a maturazione precoce e più diffusa a Serracapriola-, rosciola (antico cultivar nostrano da olio), rotondella, spagna, santacaterina), ci ha dato un olio finissimo con una resa media del 13-14 %, al prezzo di euro 4,50 dai frantoiani. Soltanto il 30% delle olive raccolte è stato molito, il resto è stato venduto fuori. Il nostro olio viene usato dalle industrie del settore come prodotto da taglio. Dei produttori locali soltanto Nicola Ferrero imbottiglia l’olio con un suo marchio riconosciuto.
Mai come oggi si sente la necessità di un’agricoltura rispettosa dell’ambiente e del paesaggio rurale in abbandono (casolari, masserie, case coloniche), distrutto sistematicamente da ignoti. Per ritrovare un equilibrio socio-culturale ed evitare dannose conseguenze nel settore agricolo occorre maggior impegno da parte degli operatori del settore. Essi dovrebbero riconvertire le loro aziende abbandonando la monocoltura (meno impegnativa e ancora conveniente grazie all’integrazione) e trasformarsi in veri imprenditori agricoli.
(Si ringrazia per la collaborazione Franco Giannubilo, presidente della Coop.Frentana, e l’Ufficio Agricolo di zona nella persona di Nicola Mannarino)