A Serracapriola lavoravano con le loro famiglie, di solito all'aperto, perché avevano bisogno di molto spazio, i funai, zuchère, Vincenzo, Ngenzenéll, Ubertiello, originario di San Severo, in via Dante Alighieri, e Pasquale Scoppitti.
 Quest'ultimo, proveniente da Monte Sant'Angelo, si stabilì, prima in via Giannone, poi definitivamente in Vico Chiuso XX Settembre n.5. L'abitazione era angusta per la sua famiglia, ma il taciturno Pasquale, la socievole Mariamichela e i quattro figli l'avevano resa linda e decorosa, come una badia. La loro pulizia, nell'accezione completa del termine, era proverbiale nel vicinato. Il lievito, u luvète de Mèrjèmechéle, indispensabile per preparare il pane in casa, era conteso dalle amiche, Lèlucce, Rèmegild, Rechétt, Nètèline. E con loro nelle lunghe serate estive la funaia si sedeva davanti casa a chiacchierare, fra il cicaleccio dei bambini, cenando con una melanzana sotto aceto, a muleggnème cà céte, su una fetta di pane. La bottega, a pochi passi da casa, ndà rojè larghe, era un basso, bbàsce, lungo circa 25 metri. Doveva essere necessariamente lungo poiché l'artigiano, procedendo a ritroso, doveva guidare l'intreccio della corda il più lungo possibile. L'attrezzo che si usava era una grossa ruota in ferro e legno con manovella, collegata mediante una puleggia all'aspo, composto da quattro filatoi muniti di ganci. Il tutto era fissato su una pesante base dilegno.
 Il lavoro iniziava quando il ragazzo, seduto su una seggiola impagliata, azionava la ruota, il più delle volte con i piedi scalzi, per poter sfogliare il fumetto, u giurnèline, che gli rendeva meno monotono quell'esercizio forzato. Altre volte, in attesa dei genitori, dava sfogo al suo talento di disegnatore, riempiendo di schizzi la parete della bottega, che tornava ad avere la sua identità quando i funai agganciavano a due filatoi, tirandole fuori dal grembiule, vendére, le prime filacce di canapa, stòpp. Indietreggiando sempre, le infilavano una per volta nelle funi che già venivano formandosi, attorcigliandosi, grazie al movimento della ruota. Questo ritmo doveva essere eseguito con metodico tempismo: se troppo lento, non faceva attorcigliare bene la fune; se troppo veloce, non permetteva l'inserimento della filaccia.
  Si partiva dalla canapa grezza. Poi si realizzava la commettitura: la fibra utilizzata dopo numerose manipolazioni, si trasformava in fibre elementari che, ritorti tra loro e intrecciati formavano il trefolo. Secondo il numero di trefoli utilizzati, il funaio realizzava cordami semplici o composti a due o a più trefoli. Per intrecciare i cordami composti si serviva di un piccolo tronco di cono con scanalature, u cùgne, che prillava fra le sue mani avvolgendo il cordame, mentre un terzo artigiano tendeva i capi, legati a un gancio, in fondo alla bottega.
 In rapporto all'uso venivano prodotti tanti tipi di corde: zòche, zùchèrèll, curdèll, zègàgghje, stràcche, che venivano venduti a peso con la stadera, velèngiòle.
 Alcuni prodotti, venivano acquistati dai sellai per completare i finimenti degli animali da tiro, e dai contadini che li usavano per ogni tipo di lavoro. La fune era preziosa, come il pane, per tutti. La corda rivestita di cuoio, u fescechéle, all'estremità delle stanghe del carretto. I ggnjàcquele, legati nei fori degli archi di legno, corve, del basto, mmast. Le funi sciolte, chepezz e chèpezzòne. La corda lunga di circa quattro metri, che veniva passata sopra il carico e serviva per imbracarlo. Le redini, rétene, per guidare gli animali da tiro. Le tirelle, terante, dei cavalli ai lati del carretto o dell'aratro. La lunga frusta, crèvasce, che si tesseva a quadretti. A pèstòre, per legare i piedi del cavallo (mpèsturè=immobilizzare). Le lunghissime funi per attingere l'acqua dai pozzi; e, quando si spezzavano, per riutilizzarle, si riunivano i capi con un intreccio, ngghjummèture. I zòche pi pànn, usate da tutte le casalinghe. I curdèll, per legare i sacchi pieni di grano o di olive e i tappi di sughero alle bottiglie di salsa. Spesso sostituivano le cinghie per reggere i pantaloni dei contadini. Ai bambini servivano per gli archi, da cui si facevano scoccare le frecce di ferro, ricavate dalle asticine degli ombrelli rotti. A zègàgghje, ben arrotolata alla trottola di legno, vutèrèll, per farla girare velocemente. A zòche pi sciàmbele (altalena), legata agli stipiti dell'uscio di casa o da un muro all'altro della strada. La corda usata dalle bambine per saltellare. E quella, più grossa, per il tiro alla fune.
 Il funaio forniva la sua materia prima, la canapa, a stòpp, agli idraulici e ai bambini, che, sciamando sempre vicino alla sua bottega, nei momenti di disattenzione dell'artigiano, gliene trafugavano, per fare i proiettili (palline di canapa impastate con la saliva) pi sckùppèrule, piccoli schioppi in legno di sambuco.
  Egli vendeva il suo prodotto, oltre che in bottega, anche nelle fiere. In paese alla fiera di Santa Rosalia costruiva la sua baracca, bbèrràcche, sul posto assegnatogli dal vigile, e lì pernottava. Al mattino attendeva gli acquirenti, anche dei paesi viciniori, che in questa festa facevano gli acquisti necessari. In ogni casa i resti di spaghi, cordicelle, fettucce, dopo aver sciolti i nodi, venivano avvolti con cura in matassine e conservati nell'apposita scatola o nel tiretto, dove trovava posto anche la carta. Cose, oggi, insignificanti, da buttare, dopo un uso frettoloso.
 Lo spago di Pasquale e di Vincenzo, ha svolto il suo umile servizio fino all'esodo degli anni 60, nell'accompagnare, assicurando i bagagli di cartone, gli emigranti in viaggio verso l'estero o il nord Italia. Già da parecchi anni il mestiere del funaio è scomparso, ma l'emigrazione dei serrani, oggi con i borsoni di plastica a chiusura lampo, continua inesorabilmente.