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  La panificazione (da "La Portella", giugno 1994)

a cura di Giuseppe Gentile    

 Un pane carbonizzato del secondo millennio prima di Cristo è stato scoperto sul fondo del lago di Garda. Si tratta di una pagnottella nera di circa dieci centimetri di diametro con le impronte digitali del "fornaio". All'esame microscopico il pane è risultato composto da frumento grezzo, miglio e forse lino. Chissà se anche i nostri antenati nella stessa età del bronzo avevano già imparato a preparare il pane?
Noi intanto fermiamo la memoria ad un passato recente, dove molti si possono ritrovare. Quando cioè i nostri contadini trasformavano il loro frumento al mulino del posto in un'unica farina integrale, ancora ricca di vitamine naturali contenute nel germe di grano. Chi non aveva questa possibilità la comprava presso i negozi di generi alimentari (putéche) che oltre ai vari alimenti avevano dei sacchi di farina.
 La panificazione in casa avveniva di solito una volta la settimana. La massaia setacciava la farina (cernéve) per eliminare la crusca (allora vile elemento di scarto, oggi nobile e ricercatissima) facendo scorrere lo staccio (setacce) su un apposito telaio (cèmèfèrine) poggiato nella parte superiore (fèzzètore) della madia (mènze), dopo aver sollevato la spianatoia (tèvelère).
 La differenza principale tra le schiacciate piatte, che da noi non si sono mai costumate, e il pane lievitato consiste appunto nell'aggiunta del lievito, che provoca un processo di fermentazione per cui la pasta si alza.
 Il lievito (luvéte) si otteneva conservando ogni volta, dopo la preparazione del pane, un piccolo resto di pasta in un recipiente (una ciotola di terracotta "zuppere" o un piatto di legno) e lasciandolo inacidire. C'era un rapporto sacro con il vicinato per lo scambio del lievito. Ognuno nel momento del bisogno poteva contare sul vicino fidato per avere in prestito "u luvét". Esso veniva conservato durante la notte in un luogo caldo e dopo un po' di tempo quasi raddoppiava il volume, da cui le espressioni derivanti da "levare e crescere".
  La prima fase della lavorazione del pane è l'impasto. Nella madia il lievito veniva mescolato abilmente con farina, acqua calda e sale e poi aggiunto alla pasta, che veniva lavorata finché non avesse raggiunto la consistenza desiderata. Quando la pasta, che si amalgamava all'interno della madia, aveva raggiunto una sufficiente compattezza, veniva appallottolata dalle massaie che vi facevano un gran segno di croce e ripetevano la frase augurale "Crisce masse, come jé cresciute Crist dint i fasce" (Cresci pasta come crebbe Gesù nelle fasce). Il significato teologico di questa espressione è profondo: Come il pane, nutrimento del corpo, cresce nella madia, così Gesù, nutrimento della nostra anima, cresce nella mangiatoia. Gesù-pane cioè vivifica la persona in un'unità inscindibile.
 A operazione ultimata si prendeva la pasta, la si avvolgeva in un panno bianco di bucato e veniva messa in un luogo protetto coperta da panni di lana per farla fermentare.
  La panificazione veniva effettuata il giorno seguente nelle prime ore del mattino, quando il fornaio "dè u chèpe da roje" gridando, avvisava che si doveva impastare la farina (èmmèssè). Infatti maciullando, gramolando e pestando a forza di pugni si lavorava l'impasto, formato dalla farina, dal lievito preparato le sera prima (u luvète rrèmmesse) e dall'acqua calda già salata, finché diventava quasi elastico.
 Per constatare che la lavorazione fosse stata fatta bene, si pressava con il pollice sulla pasta. Se l'orma del dito spariva in breve tempo era il segno che si poteva procedere all'appezzatura.
 Nel frattempo il fornaio tornava ad avvisare le massaie che dovevano preparare le pagnotte (scechène). "I pènétte", che potevano essere anche di quattro chili, venivano formate sulla spianatoia e come segnale di riconoscimento s'imprimeva sulla pasta un segno con il dito o con un marchio di ferro che aveva l'iniziale del cognome di famiglia. Ormai pronti, i pani venivano adagiati in
cesti di canne e virgulti adatti a quell'uso, coperti infine da tovaglioli freschi di bucato (i sèlviètte du pène).
 Contemporaneamente al pane bianco si preparava anche il pane nero, cioè fatto con la crusca (chènine) che veniva dato ai cani.
 Attualmente a Serracapriola il rito della panificazione in casa viene perpetuato sistematicamente da una sola massaia, mentre da parecchie altre almeno una volta all'anno con il grano appena raccolto.
  Il nutrimento dell'anima continuano a prepararlo Basilica Luisa e Palmieri Carmela, che con farina-fiore e acqua fanno il pane azzimo (ostie) veicolo del Signore per arrivare all'uomo.